mercoledì 11 aprile 2012

ANSIA AL LAVORO

L’ansia da lavoro
L’ansia da lavoro è una situazione piuttosto comune.
Si manifesta con una sensazione di malessere sul posto lavorativo che comprende giramenti di testa, paura di svenire o di sentirsi male, difficoltà a respirare, sudorazione eccessiva, rigidità del corpo, tachicardia, stretta alla gola.
Spesso questi sintomi sono accompagnati dalla paura di venire “scoperti”, “smascherati” e fare una brutta figura con i colleghi o con il capo, oppure sbagliare, fallire .
Una caratteristica che spesso predispone all’ansia da lavoro è il perfezionismo. Questo tipo di ansia è frequente in personalità che non perdonano i propri errori, molto esigenti con sé e tendenti all’autocritica. La difficoltà ad accettare la propria fragilità, i propri limiti, la tendenza a chiedersi sempre di più per “spronarsi” e la difficoltà a riconoscere i propri successi crea uno stato continuo di tensione e ostacola l’accettazione profonda di sé.
Frequentemente queste persone, anche se ottengono riconoscimenti non riescono ad essere soddisfatte,
non si nutrono dei propri successi, anzi pretendono da sé sempre di più. Gli obbiettivi che si pongono sono spesso molto alti, a volte addirittura irraggiungibili.
Un altro aspetto che predispone allo sviluppo di ansia da lavoro è la difficoltà a leggere le proprie emozioni. I propri sentimenti vengono banalizzati, screditati, ritenuti negativi o poco importanti o addirittura considerati un elemento di disturbo al pensiero razionale, che assume una posizione privilegiata, anzi diventa l’unico strumento di riferimento. Non ascoltare le emozioni crea una divisione interna, si ha la sensazione di non capirsi più, di non comprendere le proprie reazioni, di non appartenersi totalmente e di non riuscire a controllarsi. Il proprio malessere quindi viene percepito solo attraverso i sintomi dell’ansia e appare qualcosa di esterno, disgiunto dai propri significati.
Alla base dell’ansia al lavoro c’è spesso una difficoltà ad accettarsi, a perdonare i propri limiti e una tendenza a dare molta importanza al giudizio degli altri, colleghi e superiori, che bisogna compiacere. All’esterno si cerca di fornire un immagine di efficienza che rasenta l’infallibilità. Le proprie “debolezze” appaiono quindi inaccettabili, vanno nascoste, come un marchio d’infamia. Tutto ciò, spesso unito ad una buona dose di competitività crea uno stress enorme, una tensione continua.
L’ansia da lavoro genera molta sofferenza, per questo può essere utile rivolgersi ad uno psicoterapeuta, che aiuti a vivere l’ambiente lavorativo con più tranquillità.

lunedì 4 maggio 2009

La psicologia dell'amore


La psicologia dell'amore

L’amore è una tematica da sempre al centro dell’attenzione dell’uomo e quindi anche oggetto di interesse della psicologia.
Ma cos’è l’amore? A volte capita di essere confusi al riguardo e chiederci, ad esempio, se proviamo amore o solo attrazione, se siamo veramente innamorati del nostro partner o “è solo un’abitudine”, oppure può capitare di sentirci soggiogati in un rapporto che più che amore è diventato ossessione e sofferenza, o in altri casi ancora, la relazione è un campo di battaglia e la rabbia sembra costituire il legame più forte.
Per comprendere cos’è l’amore prima di tutto è importante distinguerlo dall’innamoramento. Quando siamo innamorati presentiamo uno stato di coscienza alterato: idealizziamo l’altro, siamo euforici, ci batte forte il cuore quando siamo con lui o lei. Quando queste sensazioni finiscono non è detto che l’amore sia finito, forse siamo passati ad una fase dell’amore più matura.
La coppia attraversa diverse fasi: durante la prima fase, che corrisponde all’innamoramento, la coppia vive un momento di simbiosi, di forte dipendenza, in cui l’idealizzazione dell’altro è estrema, si pensa a lui come l’anima gemella, l’oggetto che può soddisfare ogni proprio desiderio e per il quale si “perde la testa”; successivamente segue un periodo di disillusione, caratterizzato dalla tristezza e dalla rabbia, nata dalla scoperta della diversità dell’altro. In questa fase iniziano i primi sintomi di incompatibilità, possono sopraggiungere crisi d’ansia, si comincia a pensare all’esigenza di creare una giusta distanza. Una buona elaborazione del conflitto presente in questa fase permette di passare a quella successiva, la fase dell’indipendenza, in cui la coppia sente l’esigenza di uscire dal nucleo a due e di esplorare l’esterno. E’ il periodo più problematico nel ciclo della coppia e quello più a rischio di rottura in quanto possono verificarsi tradimenti. Se questa fase viene superata si passa all’ultima fase, quella dell’interdipendenza, in cui il partner viene accettato nella sua imperfezione e avviene un riavvicinamento che può permettere il riaccendersi del desiderio.
Al di là di queste fasi, valide generalmente per tutte le coppie, la complessità della vita amorosa è legata a numerose variabili: la vita adulta è frutto delle esperienze primordiali, delle relazioni genitoriali e delle relazioni importanti che si incontrano crescendo, del rapporto che si ha con se stessi e con il proprio corpo, del grado di autostima e di accettazione del proprio essere e della propensione ad affidarsi all’interno di una relazione.
Molti disturbi dello spettro ansioso-depressivo nascono all’interno della storia famigliare e si rendono evidenti soprattutto nella relazione di coppia.
Spesso bisogni di dipendenza non adeguatamente colmati durante l’infanzia, possono estrinsecarsi nel bisogno coatto di protezione e di attaccamento simbiotico nella vita adulta. Tipico esempio di ciò lo ritroviamo nell’ossessione d’amore, in cui l’altro, spesso sfuggente, diventa il nostro salvatore, la droga da cui dipende la nostra felicità, per cui arriviamo ad annullarci. Tale situazione indica una difficoltà a volersi bene, a prendersi cura di sé e la delega all’altro della responsabilità del nostro benessere. Ciò può sfociare anche nella gelosia patologica che rivela una profonda insicurezza, il bisogno continuo di controllare e possedere l’altro, il quale diventa una nostra proprietà.
Un altro esempio è il “dongiovannismo”, espressione di una personalità fragile, tesa incessantemente alla ricerca di conferme, da cui la necessità di mettere in atto un comportamento seduttivo, finalizzato alla conquista stessa più che al contatto autentico con l’altro. Alla base di questo comportamento vi sono carenze narcisistiche che non permettono il riconoscimento dell’altro: il partner funge da conferma della propria autostima (lo specchio di narciso). La vita affettiva è fatta di rapporti superficiali, gratificanti al momento ma che pesano se durano troppo a lungo, quasi un terrore dell’intimità, una vera difficoltà ad instaurare un rapporto profondo, di vero amore con un’altra persona.
Altro esempio di frequente osservazione è dato dalla personalità isterica, in cui l’insicurezza diventa desiderio di centralità nelle relazioni. Anche qui la superficialità della vita affettiva è legata al desiderio di possedere l’altro, di essere al centro dell’attenzione e al timore, in ogni istante, di perdere il potere di controllo della relazione.
L’amore e la sessualità sono dimensioni profonde dell’essere umano e la loro importanza nell’equilibrio soggettivo è ampiamente provata; molte sofferenze e forme di disagio psicologico nascono proprio dall’incapacità di gestire le relazioni amorose in modo adeguato. Esiste quindi una psicologia dell’intimità ancora poco conosciuta e strettamente legata alle caratteristiche di personalità dei partner, in cui un ruolo fondamentale è giocato dal loro livello di dipendenza-indipendenza. Una eccessiva dipendenza può essere fonte di disagio in quanto può creare una confusione di ruoli ed una riduzione dell’autonomia del singolo, può limitare la creatività e generare frustrazione, così come un’eccessiva indipendenza può causare problemi e portare alla rottura; l’interdipendenza invece, ossia la dipendenza reciproca nel rispetto delle sfere di autonomia, è un collante efficace per la coppia, che consente di conciliare i bisogni di sostegno e condivisione con quelli di autonomia ed esplorazione.
Le riflessioni proposte invitano a riflettere per diventare più sensibili a quei campanelli d’allarme che possono aiutare ad individuare precocemente segnali di disagio o di sofferenza, per favorire una maggiore consapevolezza rispetto alla propria vita affettiva.

giovedì 12 marzo 2009

martedì 27 gennaio 2009

sabato 24 gennaio 2009


La separazione


Distacco, separazione sono temi ricorrenti nell’arte, nella poesia, nel cinema.
“Non lasciarmi!” (“ne me quitte pas”), è un grido struggente che risuona in canzoni popolari di tutte le culture, a rappresentare una delle paure più profonde radicate nella natura umana: la perdita dell’oggetto d’amore.
La propensione a stringere e mantenere relazioni emotive intime è scritta nel nostro patrimonio genetico e presente dai primi giorni di vita, all’inizio sotto forma di riflessi innati (pianto, suzione, prensione, orientamento, sorriso) che diventeranno, in seguito alle risposte dell’ambiente, schemi di comportamento sempre più sofisticati.
L’angoscia di abbandono compare nel bambino piccolissimo non appena si rende conto di non essere un tutt’uno con la madre. Non c’è niente di più angoscioso del pianto di un neonato quando vede la madre allontanarsi e teme che non torni più.
L’ansia di separazione è sempre stata considerata una delle prime manifestazioni psicopatologiche infantili, alla base di sintomi come la fobia della scuola o di paure che possono gettare un’ombra sull’infanzia, come il timore del divorzio dei genitori.
Anche nell’adulto questo sentimento atavico può riemergere in modo più o meno violento di fronte ad una perdita, rievocando lo stesso senso di vuoto e l’angoscia in cui precipitavamo da piccoli.
La perdita rappresenta un “lutto” e può essere vissuta come una grave minaccia alla propria esistenza, un’amputazione di una parte di sè. Spesso si accompagna alla percezione di non poter sopravvivere senza l’altro, e ad una visione catastrofica della vita e del mondo.
In questo momento possono venire a galla inaspettati aspetti nascosti della personalità: attacchi di panico, depressione o addirittura far esplodere la follia.
E’questo lo scenario che fa da sfondo alla maggior parte dei crimini passionali, così inquietanti anche perchè nascono sull’onda di sentimenti connaturati al genere umano. Spesso si tratta di persone insospettabili, rispettabili, rivestite da una coltre di normalità, in cui la perdita di un legame affettivo risveglia sentimenti primordiali.
Quando la reazione alla separazione diventa patologica?
Il tema del distacco tocca le corde più sensibili dell’animo umano perchè spezza uno degli istinti più forti non solo nell’uomo ma anche in alcune specie animali: l’attaccamento, inizialmente alla madre, poi spostato sulla persona amata.
“L’attaccamento” è un concetto usato in psicologia per esprimere l’insieme di comportamenti, pensieri, emozioni orientati alla ricerca della vicinanza, della protezione e del conforto da parte di una figura privilegiata
La teoria dell’attaccamento studia i processi attraverso i quali si costruiscono quei modelli interni da cui dipenderà come ci rapportiamo nei legami intimi, ossia come ci rappresentiamo l’altro, come viviamo noi stessi, le nostre aspettative, le nostre paure. Tali schemi, che si costruiscono nel bambino piccolissimo (tra i 7 e i 15 mesi) agiscono al di là della consapevolezza e organizzano le informazioni relative ai rapporti affettivi, determinando cosa portiamo all’attenzione, che significato diamo agli eventi, che emozioni ci suscitano, che comportamenti adottiamo in risposta. Lo stile di attaccamento rispecchia l’unicità delle aspettative di ciascun individuo riguardo alla disponibilità degli altri per la soddisfazione del bisogno di protezione, vicinanza e condivisione.
In questo contesto assumono un peso rilevante le esperienze tra il bambino e la figura che si prende cura di lui, poiché rivestono una funzione cruciale nella costruzione dell’identità personale e nel modo di rapportarsi agli altri.
A volte esperienze infantili non ci permettono di interiorizzare l’altro come base sicura, come presenza interna stabile e positiva, minando anche la costruzione della propria identità e individualità.
La reazione all’abbandono può divenire patologica quando il primo legame di attaccamento non è stato sicuro.

Esperienze attuali possono rievocare antiche ferite, facendo riaffiorare costellazioni di angosce primitive, mai metabolizzate, confermando le aspettative di tradimento, inaffidabilità da parte dell’altro e un’immagine di sè come vulnerabile, destinato ad essere ferito, rifiutato nei rapporti.
La separazione diventa non solo perdita dell’altro ma anche perdita di sè, come persona degna di amore.
Il mondo diventa improvvisamente un deserto privo di senso, dove niente è stabile e ogni rapporto intimo porta con sè il fantasma dell’abbandono e del dolore insostenibile che comporta.
Gli stili di attaccamento vengono generalmente suddivisi in 4 categorie generali:
Configurazioni di tipo B (sicuri/autonomi)
I soggetti sicuri/autonomi hanno vissuto nell’infanzia esperienze di protezione, conforto, condivisione emotiva che gli hanno permesso di costruire una base sicura. Essi riconoscono il proprio bisogno degli altri e la propria autonomia.
Di fronte alla separazione sono in grado di gestire le emozioni negative, e hanno la fiducia di trovare nuovi rapporti gratificanti.
Configurazioni di tipo C (invischiate/preoccupate)
Dalla storia personale dei soggetti invischiati/preoccupati emerge l’imprevedibilità e l’incostanza delle figure di riferimento.
Intrappolati nelle loro esperienze infantili, essi possono manifestare forte ansia nelle relazioni intime, con paura di essere abbandonati e forti spinte al controllo e alla gelosia, oppure sviluppano atteggiamenti di dipendenza e compiacenza. Cercano di controllare l’altro con la rabbia, di mantenere viva l’attenzione anche quando non ne hanno bisogno, alternando comportamenti aggressivi e comportamenti di richiesta di contatto e consolazione.
Vi è una difficoltà a creare un identità autonoma, a separare il passato dal presente, ad integrare sentimenti negativi e positivi. Queste persone hanno bisogno dell’altro per regolare le proprie emozioni e mantenere un senso di sè stabile, per questo vivono la separazione con ansia estrema
Configurazioni di tipo A (distanzianti)
Il modello interno di queste persone si costruisce intorno una figura genitoriale rifiutante rispetto alle loro richieste di conforto. Il genitore non è in grado di fornire empatia ma accudisce il bambino solo nei bisogni pratici. Questo bambino interiorizza il disagio del genitore di fronte all’intimità e al contatto emotivo e percepisce la distanza come l’unica modalità che sente efficace per relazionarsi all’altro. Le persone distanzianti affermano la propria indipendenza e la loro forza. Sono orientati al compito e cercano di fare tutto da soli, con difficoltà a chiedere aiuto. Si caratterizzano per un buono sviluppo cognitivo e una rabbia congelata. Mostrano un atteggiamento di distanza dalle relazioni intime delle quali cercano di minimizzare l’importanza, possono sviluppare forti difficoltà a comunicare sul piano dei sentimenti, difficilmente tollerano la vicinanza emotiva. La difficoltà a riconoscere ed esprimere le emozioni fa si che esse vengano spesso somatizzate dando luogo a disturbi fisici.
Configurazioni irrisolte/disorganizzate(D):
Questa categoria comprende soggetti classificabili nelle precedenti tre categorie, differenziabili solo sulla base della presenza di lutti o traumi non risolti, legati al maltrattamento infantile, o a lutti non risolti nella vita del genitore (depressione della madre).
La tendenza ad avvicinarsi e quella ad allontanarsi inibiscono l’un l’altra e il soggetto sperimenta emozioni che travolgono la sua capacità di organizzare un comportamento coerente.
Le separazioni possono rievocare gli stati emotivi legati al lutto non risolto.

Il tipo di attaccamento tende ad essere piuttosto stabile, può comunque modificarsi in seguito ad esperienze particolarmente significative. La psicoterapia può costituire un’esperienza emozionale correttiva in grado di modificare i vecchi schemi e interrompere i circoli viziosi che rinnovano le esperienze traumatiche del passato.

L'OSSESSIONE D'AMORE: LA DIPENDENZA AFFETTIVA
Dott.ssa Barbara Corte

L’amore, rappresenta il bisogno e la capacità di trascendere noi stessi e, insieme ad un altro, creare una realtà nuova. Talvolta, quando si altera l' equilibrio tra il dare e il ricevere, tra il proprio confine e lo spazio condiviso, l'amore può trasformarsi, invece che in un'occasione di crescita e arricchimento, in una gabbia senza prospettive di fuga, con pareti fatte di dolore. Questo è quello che succede quando si scivola nella dipendenza affettiva. La dipendenza affettiva è una forma patologica di amore caratterizzata da assenza cronica di reciprocità nella vita affettiva, in cui l'individuo, “donatore d'amore” a senso unico, vede nel legame con un altra persona, spesso problematica o sfuggente, l'unico scopo della propria esistenza e il riempimento dei propri vuoti affettivi.
Non sempre la differenza tra amore e dipendenza affettiva è netta. Può addirittura accadere che i due fenomeni si confondano.
La chiave di distinzione sta nel grado di autonomia dell'individuo e nella sua capacità di trovare un senso in se stesso. Diversamente da quanto comunemente si crede, l'amore nasce dall'incontro di due unità, non di due metà. Solo per si percepisce nella sua completezza è possibile donarsi senza annullarsi, senza perdersi nell'altro. Chi è affetto da dipendenza affettiva, non essendo autonomo, non riesce a vivere l'amore nella sua profondità e intimità. La paura dell'abbandono, della separazione, della solitudine generano un costante stato di tensione. La presenza dell'altro non è più una libera scelta ma è vissuta come una questione di vita o di morte: senza l'altro non si ha la percezione di esistere. I propri bisogni e desideri individuali vengono negati e annullati in una relazione simbiotica.
La dipendenza affettiva, diversamente da quanto a volte si manifesta all'evidenza, non è un fenomeno che riguarda una sola persona, ma è una dinamica a due. A volte il partner del “dipendente affettivo” è un soggetto problematico, che maschera la propria dipendenza affettiva con una dipendenza da droga, alcol o gioco d'azzardo. In questo caso i problemi del compagno diventano la giustificazione per dedicarsi interamente all'altro bisognoso, non prendendosi il rischio di condurre un'esistenza per sé.
Altre volte la persona amata è rifiutante, sfuggente o irraggiungibile, per esempio sposata o non interessata alla relazione. In entrambi i casi quello che seduce è la lotta: la dipendenza si alimenta del desiderio di essere amati proprio da chi non ci ricambia in modo soddisfacente, e cresce in proporzione al rifiuto, anzi se non ci fosse quest'ultimo, il presunto amore non durerebbe.
La persona che ha una dipendenza affettiva di solito soffoca ogni desiderio e interesse individuale per occuparsi dell'altro ma inevitabilmente viene delusa e il suo amore prende la forma del risentimento. Allo stesso tempo non riesce ad interrompere la relazione, in virtù di ciò che definisce “amare troppo”, non rendendosi conto che questo comportamento distrugge l'amore che richiede invece autonomia e reciprocità.
Nella dipendenza affettiva, ciò che viene sperimentato come amore diventa una droga. I sintomi della dipendenza sono gli stessi :
 ebbrezza : il soggetto prova una sensazione di piacere quando sta con il partner, che non riesce ad ottenere in altri modi e che gli è indispensabile per stare bene.
 tolleranza: il soggetto cerca dosi di tempo sempre maggiori da dedicare al partner, riducendo sempre di più il proprio tempo autonomo e i contatti con l’esterno
 astinenza: il soggetto sente di esistere solo quando c'è l'altro, la sua mancanza lo getta in uno stato di allarme. Pensare la propria vita senza l'altro è inimmaginabile. L'altro è visto come l'unica fonte di gratificazione, le attività quotidiane sono trascurate, l'unica cosa importante è il tempo trascorso con l'altro.
 incapacità di controllare il proprio comportamento: una riduzione di lucidità e capacità critica che crea vergogna e rimorso e che in taluni momenti viene sostituita da una temporanea lucidità, cui segue un senso di prostrante sconfitta e una ricaduta nella dipendenza ,che fa sentire più imminenti di prima i propri bisogni legati all’altro. Questi processi si colorano di rabbia e senso di colpa
Inoltre, a differenza delle droghe, che sono più facilmente disponibili, si può generare una paura ossessiva di perdere la persona amata, espressa con gelosia e possessività, che si alimenta smisuratamente ad ogni piccolo segnale negativo che si percepisce.
La posizione paradossale che caratterizza la dipendenza affettiva è: “non posso stare con te” (per il dolore in seguito a umiliazioni, maltrattamenti, tradimenti) “ne senza di te”, (per l'angoscia al solo pensiero di perderti).
La dipendenza affettiva affonda le sue radici nel rapporto con i genitori durante l'infanzia. Le persone dipendenti da bambini hanno ricevuto il messaggio che non erano degni di essere amati o che i loro bisogni non erano importanti. Queste persone di solito provengono da famiglie in cui i bisogni emotivi sono stati trascurati in virtù dei bisogni materiali. La crescita copre la ferita, ma la lascia insanata. Attraverso l'identificazione con il partner le persone dipendenti cercano di salvare se stessi e colmare le proprie carenze affettive. Nella vita di coppia si riattribuiscono, più o meno inconsapevolmente, un ruolo simile a quello vissuto con i genitori, nel tentativo di cambiare il finale. L'assenza della possibilità di sperimentare una sensazione di sicurezza nell'infanzia genera il bisogno di controllare l'altro, nascosto dietro un'apparente tendenza all'aiuto.
Il principale problema nella risoluzione delle dipendenze affettive è l’ammissione di avere un problema. Esistono, infatti dei confini estremamente sottili tra ciò che in una coppia è normale e ciò che diviene dipendenza.
La difficoltà nell’individuazione del problema risiede anche nei modelli distorti di amore che possono far ritenere determinati abusi e sacrifici di sé come “normali”.
Spesso, paradossalmente, è la “speranza” che fa sopravvivere il problema e che tende a cronicizzarlo: la speranza in un cambiamento impossibile, soprattutto in un contesto relazionale in cui si sono consolidati dei copioni da cui è difficile uscire. Così, paradossalmente, l’inizio del cambiamento arriva quando si raggiunge il fondo e si sperimenta la disperazione, che rappresenta la possibilità di sotterrare le illusioni che hanno nutrito a lungo il rapporto patologico.
E' questo il momento in cui si è più disposti a chiedere aiuto, e può essere l'occasione per iniziare un percorso psicologico di cambiamento, finalizzato alla costruzione di legami sentimentali più appaganti.

Niente più panico dell'attacco di panico

Niente più panico dell’attacco di panico

Come si manifesta
L’attacco di panico è un’esperienza molto spiacevole e piuttosto diffusa (8% della popolazione).
A livello corporeo l’attacco di panico è caratterizzato da sintomi come tachicardia, sensazione di soffocamento, vertigini, giramenti di capo, vampate di calore, brividi di freddo, tremori, sudorazione.
A livello psichico l’attacco di panico è accompagnato da un improvviso terrore, da una sensazione di morte incombente o di perdita del controllo delle proprie idee e azioni e il timore di stare sul punto di impazzire
Negli attacchi più gravi il soggetto può perdere il contatto con la realtà (derealizzazione) avere la sensazione di vivere in una realtà diversa o di non riconoscersi più (depersonalizzazione). La sintomatologia acuta dura da 15 a 30 minuti.

Le conseguenze del panico
La ripetizione di attacchi di panico lascia nel soggetto una paura di fondo che, se non affrontata in tempo, può far si che si strutturino gradualmente una serie di limitazioni. Dapprima il soggetto tenderà ad evitare luoghi e situazioni nelle quali teme possa ripresentarsi un attacco (come il guidare, il frequentare un supermercato, usare l'ascensore). Successivamente possono sorgere paure degli spazi aperti (agorafobia), fino ad arrivare all’evitamento delle situazioni sociali,alla paura di uscire di casa, all’isolamento e alla depressione.
Inoltre si può produrre uno stato di continua preoccupazione per la propria salute e timore di avere una grave malattia cardiovascolare.

Il messaggio dell’attacco di panico
L’attacco di panico è essenzialmente un’esperienza di angoscia pura e semplice, apparentemente sganciata dal contesto e da qualsiasi riferimento. L’angoscia è una forma di tensione che assomiglia alla paura, ma che si differenzia da questa perché manca l’esatta conoscenza della causa. In questo modo ha un effetto paralizzante, piuttosto che reattivo, in quanto si tratta di una situazione che non è spiegabile né affrontabile (in apparenza) e quindi fa sentire inermi.
Per questo è invece necessario convincersi, con l’aiuto di un esperto che il panico è affrontabile, spiegabile e risolvibile.

Rigirare la situazione: l’attacco di panico come amico
L’attacco di panico non è un sintomo slegato dal contesto, un nemico misterioso e pericoloso ma un segnale che ci avvisa che stiamo trascurando qualcosa dentro di noi o intorno a noi.
In questo senso può essere un amico che ci offre la possibilità prenderci uno spazio per interrogarci sulle nostre emozioni, che spesso non ascoltiamo, ignoriamo o controlliamo troppo, permettendoci di fermarci un attimo a riflettere su come possiamo migliorare il nostro stato di benessere.
Per ulteriori informazioni:
Dott.ssa Barbara Corte via Luigi Lilio,19 Roma Cell:320/3295200 e-mail: barbaracorte@virgilio.it